Massimo Arcangeli – Intervento alla presentazione del volume
Massimo Arcangeli
Intervento alla presentazione del volume: Gianfranco Marrone, Il discorso di marca, Laterza 2008 (Roma La Sapienza, 4 giugno 2008)
Sto lavorando in questi ultimi mesi a un saggio dal titolo provvisorio Per una linguistica dinamica e relazionale: ibridazione e riuso. Una linguistica di frontiera, o proficuamente borderline, che diventa analoga, coraggiosa semiotica in questo ultimo bel libro di Gianfranco Marrone; il quale, nel riconfermare il decisivo ruolo modellizzante della semiotica, la declina sul versante del discorso di marca. Non è un caso che anche la linguistica dell’ultimo decennio (almeno) abbia privilegiato l’ottica del discorso in tante ricerche, alcune delle quali si potrebbero applicare con profitto al branding (meglio che brand, nota Marrone, per sottolinearne la natura di “processo” e di “evento dinamico”: p. 16). Mi guardo però bene dall’affrontare qui l’ampia serie di problemi comportati dalla definizione di discorso e dalla sua distinzione dal testo, variamente dibattuta. Almeno un accenno vorrei fare invece a un altro aspetto linguistico che Marrone sviluppa in pagine assai interessanti: la polarizzazione fra marcato e non marcato, tema portante della riflessione funzionalista e strutturalista novecentesca, da cui prende iniziale spunto quello “sguardo semiotico sulla marca” (p. 12) che diverrà, coll’avanzare della lettura, visione iridescente e caleidoscopica. Da quella opposizione di partenza prenderanno difatti l’abbrivo instabilità e sfumature, mescolanze e complicazioni, “idioforie” e “alloforie” (tipicamente, nella linguistica distributiva: allofoni, allografi, allotropi, etc.): in perfetta linea con le direttrici del pensiero linguistico contemporaneo, che ha ormai rivisto sostanzialmente quell’opposizione privativa: la scarsa frequenza nelle lingue del mondo degli elementi marcati, per esempio, “ha spinto in fonologia ad elaborare una teoria della “marcatezza” […] che riconduce tale rarità interlinguistica alla maggiore complessità intrinseca dei segmenti in questione. Di qui la nuova accezione di [marcato / non marcato], che vale in questo senso ‘meno/più frequente interlinguisticamente’, ‘meno/più intrinsecamente naturale’” (Michele Loporcaro).
Ma ritornando a quel mio lavoro in progress, mi preme sottolineare la frequenza con cui ricorrono nel libro di Marrone, a fondamento della sua tesi sul discorso di marca, proprio parole-chiave come dinamismo, relazionalità, ibridazione, riuso; se ne potrebbero aggiungere senz’altro diverse altre (costruzione, processo, trasformazione, flusso, continuità, intreccio, tensione, partecipazione, patteggiamento, conversazione…), anch’esse meritevoli di commento; limito però il mio intervento alle quattro indicate, cui fa da naturale premessa il discorso, che riassume tutte le componenti indicate: esso “ha una natura sincretica, in quanto può manifestarsi in superficie facendo ricorso a testi di natura e sostanza diverse (verbali, visivi, gestuali ecc., ma anche legati all’azione umana e ai comportamenti istituzionali)” (p. 15); “entra in relazione con altri discorsi all’interno della cultura di riferimento, si incrocia e si ibrida, scatena conflitti o stipula accordi, in ogni caso si trasforma all’interno di una rete intertestuale, interdiscorsiva e intermediatica dove trova spazio anche la relazione metalinguistica di spiegazione o parafrasi” (p. 16); “scorre in un processo, non è un’entità statica e monolitica ma un fenomeno in continuo mutamento” (ibid.).
Riuso. La postmodernità – parola ormai abusatissima e da prendere con le molle – ricicla sempre più tutto, anche il tempo (si pensi alle recenti tendenze del vintage o delle covers musicali). Oggi più che mai, come forse mai in passato, il riuso detta legge, si è fatto esso stesso legge. Il riuso parla a chi già sa, misura il grado di popolarità dell’oggetto, delle strutture di senso, dei materiali riusati; chi legge, ascolta o assiste riconosce perché ha già letto, ascoltato, assistito. Anche la marca sta al gioco dell’intertestualità, o, se si vuole, dell’ipertestualità (nel senso di Genette) implicate dal riuso; quando per esempio, osserva Marrone, “tende a importare entro il discorso blocchi di significazione […] ripresi da immaginari mitologici della cultura di massa” (p. 31), spingendo il lettore a raschiare mentalmente la superficie per riportare alla luce l’immagine celata dal palinsesto: la pubblicità di un annuncio 40Weft nel quale la donna che “in uno scenario da post-conflitto […] sventola una bandiera rossa, tenendo per mano un bambino[,] […] circondata da un certo numero di personaggi che si protendono verso di lei” (p. 31), allude chiaramente alla Libertè guidant le peuple di un famosissimo dipinto di Eugène Delacroix; quellà di Oliviero Toscani per Benetton che vede riunito un intero nucleo familiare al capezzale di un malato terminale di aids, definita dallo stesso fotografo una “moderna Pietà”.
L’“ipertestualità”, oggi, è l’ipermodernità della sociologia più consapevole (che la preferisce a postmodernità), l’iperletterarietà di certe scelte narrative, l’ipertelevisività di una “televisione invadente in tutti i campi e insieme […] che cerca – peraltro con fatica – di adattarsi a una fase mediatica dominata dall’ipertestualità” (Peppino Ortoleva), l’iperespressività dell’immagine nella comunicazione pubblicitaria. L’ipertestualità ci parla sempre più di intrecci, ibridazioni e contaminazioni, di palinsesti che si rincorrono, di format che si ricalcano l’uno sull’altro, di strutture del racconto e di modalità e organizzazioni testuali che viaggiano di continuo da un genere all’altro, da un mezzo all’altro.
Chi maneggia oggi un ipertesto, chi ne sperimenta le anche assai complesse architetture, sa benissimo di avere a che fare non più semplicemente con una categoria del contenuto ma con la rappresentazione stessa del mezzo con cui l’informazione e la cultura, sempre più frequentemente, vengono trasmesse: il Web. E si spera che questo possa divenire davvero il luogo di realizzazione di quella “democrazia elettronica” più volte pronosticata o auspicata che sottragga il cittadino al nuovo regime imposto dalle “cattedrali del consumo” (George Ritzer), i grandi, fagocitanti centri commerciali: spesso collocati ai margini degli agglomerati urbani, come un tempo le fabbriche, e sempre più luoghi “chiusi e autosufficienti” (Vanni Codeluppi) di autentico “pellegrinaggio” nei quali consumare tutto il tempo disponibile a fare acquisti e senza mai realmente socializzare. Nuovi centri aggreganti di uno spazio comunitario garantito dai conflitti e igienizzato che nella versione “integrata” e reticolare di piccole cittadelle – in molti casi tali anche nell’aspetto –, luoghi in cui si può ormai fare di tutto, sembrano essere il frutto di un nuovo ciclo postproduttivo (o, nuovamente, iperproduttivo). Quel tempo libero che, non molti anni fa, si era pensato sarebbe stato speso per lo più in futuro in rilassanti attività ricreative, disinteressate e “gratuite”, si è trasformato per la maggior parte delle persone – sebbene i privilegiati che possono permettersi di disporne lussuosamente siano in aumento – in tempo di altra, costosa produzione: che è come dire dalla padella della catena di montaggio alla brace della catena di consum; dall’iperità generale all’“ipoità” di identità e relazioni che si consumano rapidissimamente, in un ciclo produttivo parallelo di esistenze ed esperienze quasi usa-e-getta.
Ibridazione. Tocca ormai un po’ tutto: i generi disciplinari (quelli letterari come quelli diffusi dalla cosiddetta neo-televisione), le scuole di pensiero e le correnti religiose, le scommesse in campo tecnologico e scientifico, l’identità e le scelte in materia sessuale, le logiche di schieramento politico, le varietà linguistiche. Che i vari dialetti italiani, ribattezzati per questo neodialetti, si stiano in molti casi imbastardendo (quelli metropolitani, in parte, “bastardi” lo sono già) è un dato incontestabile; che l’inglese, la nuova lingua veicolare mondiale, abbia ultimamente acquistato posizioni scendendo spesso a patti con le lingue incontrate è un altro dato incontestabile: dall’englog al japlish (l’inglese parlato rispettivamente nelle Filippine e in Giappone), dal taglish (che mescola tagalog e inglese) al tex-mex, “lo spagnolo messicano usato in Texas” (David Crystal) e pesantemente condizionato dall’anglo-americano, dallo spanglish al globish di un fortunato libro di un esperto di marketing internazionale, il francese Jean-Paul Nerrière, è ormai tutto un fiorire di designazioni il cui comune denominatore è la presa d’atto di una sostanziale ibridazione.
Il libro di Marrone ci fa più volte toccare con mano il fenomeno: con le fitte, reciproche contaminazioni fra generi, testi e discorsi lungo articolati percorsi di de-generazione e ri-generazione (“una dialettica per cui, se da una parte ogni testo si costituisce e si interpreta a partire da una classificazione generica precedente, d’altra parte esso ridefinisce il genere che lo ha posto in essere, lo degenera e lo rigenera al tempo stesso […], dettando ogni volta le istruzioni per una sua possibile ricezione”, p. 184); con il trasferimento della dimensione visiva del branding nel campo delle “altre dimensioni sensoriali (udito, olfatto, gusto…)[,] sino a coinvolgere la corporeità nel suo complesso” (p. 259); con il “marketing esperienziale ed estetico” (p. 53), che “oltrepassa l’idea di un semplice soddisfacimento del cliente (sulla base delle proprietà dei singoli prodotti) in nome delle sue reali esperienze di consumo (che coinvolgono più in generale i sensi, l’affettività, la cognizione, l’azione e la relazione)” (p. 53 sg.) e altri esempi di “sconfinamento” dell’economia nel campo dell’estetica (come la fiction economy: p. 182); con il discorso di marca che non soltanto, al pari dell’emotional branding (o come lo si voglia ancora chiamare: p. 117), “trascende […] – osserva Landowski – la sfera economica e il discorso pubblicitario per innestarsi anche in altre sfere sociali, altri discorsi, come la politica e il giornalismo” (p. 73), cosa che avviene spesso, ma aspira a una “visione transdisciplinare e comparativa della marca, dove la ricostruzione di un preciso tipo di discorso – quello, appunto, del branding – non può non prendere in efficace considerazione altri tipi di discorso, in modo da rilevarne somiglianze e differenze” (p. 334).
Tutti casi di disomogeneità o contaminazione della cui pervasività ha una grossa parte di responsabilità, ancora una volta, il Web. Il valore del bipolarismo insito nella discussione sulle dinamiche dei possibili rapporti esistenti tra luoghi centrali e periferici, all’interno dei vari sistemi e ordini concettuali, versa oggi in una condizione di sostanziale crisi. La natura di quei luoghi, in quanto estremi fisico-geografici di un continuum, è quella dei solidi; la natura di una rete elettronica di link, punti nevralgici e apolari di un ininterrotto, oceanico passaggio di informazioni in entrata e in uscita, richiama piuttosto le proprietà dei fluidi. Essa riflette assai bene la modernità “adiaforica” e “liquida” nella descrizione di Zygmunt Bauman, che si insinua casualmente nel tessuto sociale e ne intride le fibre.
Sulla natura delle forme e dei contenuti del Web ci si interroga continuamente: cosa facciamo quando comunichiamo via chat, scriviamo, parliamo o, piuttosto, non facciamo né l’uno né l’altro e tutti i tentativi di reazione a questa un po’ disperante condizione sono inutili? Che cos’hanno i sempre più diffusi blog dei vecchi diari di un tempo e, soprattutto, sono veri diari o una mescolanza di cose eterogenee che, nel momento stesso in cui tentiamo di definirle, già ci sono sfuggite? Perché un social network ci dà l’impressione che di sociale abbia ben poco e sia anzi quasi una contraddizione in termini? Un’eterogeneità diffusa o eletta addirittura a sistema sarebbe sintomatica di un ritorno a condizioni di “scioltezza” o sregolatezza dopo secoli di predominio dell’ordine stabilito da una visione razionale, normativa, codificata del mondo; ho la netta sensazione che si tratti di uno scenario che si sta schiudendo lentamente dinanzi ai nostri occhi. Tre parole-chiave definiscono meglio di altre la complessità e la vischiosità, l’anomia e la forte tensione “anormativa”, il collasso di sistemi, comportamenti e linguaggi di questi ultimi anni: una è proprio ibridazione; le altre due sono randomizzazione e discarica.
Il flusso inarrestabile dei materiali di scarto che mettono ormai a dura prova il sistema di trasmissione di dati e informazioni attraverso la rete, quotidianamente intasata dal sovraccarico di materiali e sempre più simile a una gigantesca pattumiera virtuale, del mondo (globalizzato) è addirittura l’emblema; da quel flusso ha messo da tempo in guardia Jakob Nielsen, il massimo esperto mondiale di “usabilità” delle informazioni diffuse dal Web: i media sono invasi da un fiume inarrestabile di informazioni inutili e l’inquinamento maggiore (tra e-mail indesiderate del tipo spam, documenti in formato pdf illeggibili a video, banner pubblicitari, inservibili collegamenti a blog attivati dai motori di ricerca e quant’altro) sembra correre proprio sul filo, sempre più lento, del Web.
Dinamismo e relazionalità. Sono quelli della semiotica più avvertita, che, osserva Marrone, “ha da tempo abbandonato il segno come specifico ed esclusivo oggetto di indagine, preoccupandosi semmai di studiare la significazione, ossia quelle forme significanti che, sottostando al segno come unità di superficie, permettono la produzione e la circolazione del senso umano e sociale. Già da tempo la semiotica si occupa di tutti quei fenomeni (narratività, passioni, forme di vita, discorsività, enunciazione, contratti comunicativi, testualità e intertestualità, traduzione ecc.) che trascendono e al tempo stesso fondano l’esistenza del segno, e che […] sono anch’essi, ben più del segno, di stretta pertinenza del processo complessivo del branding” (p. 255 sg.). Il discorso di marca, quindi, come sistema dinamico di relazioni che sostituiscono ai vecchi segni “isolati” e “autonomi” dello strutturalismo “elementi testuali che, collegandosi fra loro in un insieme coerente di senso, si caratterizzano per essere la punta dell’iceberg di un flusso discorsivo e una narratività soggiacenti (p. 256). Chiamata in causa da questo discorso, inevitabilmente, anche l’identità della marca, che si configura a sua volta come relazionale:
gli esperti d’economia e di marketing, di sociologia dei consumi o di comunicazione pubblicitaria […] ritengono che la semiotica debba occuparsi degli aspetti cosiddetti ‘immateriali’ della marca, dunque di quegli svariati fenomeni simbolici, immaginari, narrativi ecc. che essa promana; laddove invece il core ‘materiale’ di essa, il suo hardware razionale ed economico, resterebbe di pertinenza di chi si occupa di cose concrete e pratiche, di beni e servizi reali, di denaro insomma. L’attuale prospettiva teorica degli studi semiotici supera però questo genere di aprioristiche distinzioni fra economia e comunicazione, funzionale e simbolico, reale e immaginario, hardware e software, contesti produttivi concreti e testi fittizi che metonimicamente li rappresentano. E lo fa in nome dell’idea (costitutiva della disciplina) secondo la quale i segni, i linguaggi, i testi, i discorsi sono per loro natura modi socioculturali diversi di mettere in relazione significanti e significati, espressioni e contenuti, forme e sostanze, dunque cose e idee, materie e pensieri, corpi e cognizioni, economia e simboli, facendoli in tal modo sussistere come tali (p. 4).
Anche nel pensiero antropologico attuale la teoria dell’identità concede molto più che in passato all’ipotesi del mutamento e della trasformazione e fonda anzi in molti casi proprio sull’identità “di flusso”, piuttosto che su quella “strutturale”, le sue teorie più convincenti e affascinanti. L’identità, ha scritto Francesco Remotti:
è spesso (quasi inevitabilmente) concepita come qualcosa che ha a che fare con il tempo, ma anche, e soprattutto, come qualcosa che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo. L’identità di una persona, di un “Io”, è considerata come una struttura psichica, come un “ciò che rimane” al di là del fluire delle vicende e delle circostanze, degli atteggiamenti e degli avvenimenti, e questo rimanere non è visto come una categoria residuale, bensì come il nocciolo duro, il fondamento perenne e rassicurante della vita individuale. A pensarci bene, non è rigorosamente necessaria la stabilità perché si possa parlare di identità: la stabilità aiuta a identificare; ma più importanti sono i contorni, le delimitazioni e – proseguendo su questo piano – le denominazioni.
Nelle scienze umane nel loro complesso ormai “tende a imporsi sempre più l’idea secondo cui gli esseri umani non possono essere intesi come entità isolate che soltanto successivamente, e per così dire gradatamente, scoprono la vita sociale (con i suoi vantaggi e con i suoi ostacoli). È significativo che anche una disciplina come la psicoanalisi, dedita per vocazione all’analisi della psiche individuale, abbia rinunciato, almeno in certi suoi rappresentanti [i relazionalisti], all’impostazione freudiana” (Remotti). Lo scrittore gerosolimitano Amos Oz, affrontando i temi scottanti del fanatismo religioso e del sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi, ci ha restituito indirettamente, in una assai bella immagine, una delle migliori definizioni di identità:
nessun uomo e nessuna donna è un’isola, siamo invece tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Credo che ci si debba lasciare il diritto di restare penisole. Ogni sistema sociale e politico che trasforma noi in un’isola darwiniana e il resto del mondo in un nemico o un rivale, è un mostro. Ma al tempo stesso ogni sistema sociale, politico e ideologico che ambisce a fare di ognuno di noi null’altro che una molecola di terraferma, non è meno aberrante. La condizione di penisola è quella congeniale al genere umano. È quello che siamo e che meritiamo di essere. Così, in un certo senso, in ogni casa, famiglia, in ogni relazione umana, stabiliamo un contatto con un certo numero di penisole, e faremmo meglio a rammentare tutto questo, prima di tentare di foggiare l’altro, di farlo voltare e pretendere che imbocchi la nostra strada quando invece ha bisogno di trovarsi di fronte all’oceano, per un certo tempo. Ciò vale per gruppi sociali e culture e civiltà e nazioni […]. Nessuno […] è un isola e nessuno […] potrà mai amalgamarsi completamente con l’altro. […]. [L]’immaginare l’altro, il riconoscere la nostra comune natura di penisole possono rappresentare una parziale difesa dal gene fanatico, che tutti abbiamo insito in noi.
È il tramonto di ogni opposizione, di ogni bipolarismo, di ogni geografia di luoghi distinti. È la fine dell’io e dell’altro e l’ascesa dell’io che è anche un altro. Anche questo volume di Marrone contribuisce, in modo incisivo (e non solo relativamente al discorso di marca), a superare quella “logica del discreto […] che nel logos strutturale funzionava in relazione a una visione statica dello scarto” (Jean-Marie Benoist); esso aiuta a considerare differenze e scarti, identitari o di altro genere, come limiti (nel senso matematico del termine), poli ideali di uno dei tanti tragitti “discorsivi” possibili, scorporabili dagli oggetti delle loro applicazioni e ricollegabili fra di loro in modi sempre diversi lungo itinerari sempre nuovi. Si svela così, di quegli oggetti, la sintassi piuttosto che la semantica. Alla visione statica ed essenzialista dell’io sono io e a quella speculare ed antagonistica, ma ugualmente discreta, del rimbaudiano io è un altro, subentra la visione dinamica e probabilistica dell’io è anche un altro, in cui l’identità cessa alfine di essere ídion senza però annullarsi nel koinón; dando così l’impressione di muoversi senza posa, scivolosa e incerta, tra il sé e l’esterno da sé. Sono proteiformi, postmodernamente, sia il pubblico dei consumatori (“attori sociali che costruiscono sempre più la loro identità patchwork vagando da uno stile all’altro, da un gusto all’altro, da un sistema di valori a un altro, da una marca all’altra senza soluzione di continuità”, p. 10) sia la marca (“schivando le maglie della razionalità economica e le stesse strategie di mercato, si pone come pura forma capace di assumere sostanze diverse, dalla poltica al turismo, dallo spettacolo all’umanitarismo, dall’educazione alla gastronomia ecc. – vettore forte di un senso qualsiasi, purché ce ne sia uno”, p. 11). Per quest’ultima, in particolare, l’“opposizione tradizionale di fondo fra materialità e immaterialità, reale e virtuale […] dal punto di vista semiotico non ha alcuna ragion d’essere” (p. 14); le marche, soprattutto, non si adattano alla dimensione monologica e chiusa dei mondi possibili ma a quella dialogica e aperta del racconto mitico:
I mondi possibili […] non sono universi totalmente immaginari ma mondi fittizi che, per tutto ciò che non ricostruiscono esplicitamente al loro interno, restano parassiti del mondo effettivo della nostra esperienza, dipendono dunque fortemente proprio da quella realtà che vorrebbero superare, e a essa tornano molto spesso. Le marche non hanno questa prerogativa, poiché si innestano direttamente nella esperienza quotidiana del consumo e, in generale, nella vita quotidiana, contribuendo ad articolarla, dunque a dotarla di un qualche spessore di senso; l’opposizione, anche se debole, fra realtà e finzione per esse non ha alcun senso. Inoltre, il mondo possibile, se da una parte è parassita del mondo dell’esperienza comune, dall’altra, per definizione, non ha alcuna relazione con altri analoghi mondi possibili: è chiuso, imperemabile all’influenza esterna, senza contatto o dialogo. Le marche, al contrario, usufruiscono del meccanismo dialettico della costruzione identitaria sulla base del quale il Sé si determina in funzione dell’altro, e viceversa – che è, a ben vedere, il principio strategico basilare del posizionamento. Come i miti, le marche si parlano fra loro: costruiscono e trasformano la loro identità, prima ancora che dotandosi di una forte coerenza interna, entrando in relazione con le marche complementari e concorrenti: cosa che viene esclusa dalla nozione stessa di mondo possibile, quale è stata formulata quanto meno da Leibniz in poi (p. 14).
Liberato il discorso di marca anche dagli impacci che lo tenevano legato al mondo possibile, e agganciato al mito, ha buon gioco Marrone per assestare il colpo decisivo: “Ogni discorso […] è per certi versi un discorso di marca” (p. 155). Praticamente Dio:
la marca si pone come entità divina poiché rivendica, e di fatto attua, una sua capacità fondatrice sui corpi umani e sociali. Più che marchio, essa si mette in gioco grazie all’atto del marchiare, dell’imprimere segni più o meno indelebili sulla pelle e nella carne. Diviene così un soggetto marchiante che esibisce corpi marc(hi)ati, di fatto costruendone l’identità individuale e la valenza sociale. Agendo sul corpo e forgiandone le fattezze, non solo la marca rivendica una sua posizione di supremazia e di dominio su di essi, ma, ben più profondamente, finisce per porsi come entità artefice, perfetto sostituto di un Dio creatore del cielo e della terra, delle cose materiali ma anche di quelle immateriali (p. 336).
Soggetto meta-enunciatore che “riusa” valori e discorsi altrui, che agisce in divenire (il marchiare) più che sostanziarsi in essere (il marchio), che interviene sui corpi e li plasma. Se è un Dio, è un Dio tribale, provvisorio e cangiante; che surroga, ma con le sue tante identità, relazioni e interfacce disinnesca, la carica detonante delle tre grandi religioni monoteiste e dei loro simulacri.
Massimo Arcangeli
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