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“La Sicilia è di moda”, di Amelia Crisantino

(La Repubblica, 23 gennaio 2008)

L’uscita del suo ultimo libro, Il discorso di marca, edito da Laterza, ci offre l’occasione per incontrare Gianfranco Marrone: che a Palermo insegna semiotica e negli ultimi anni ha scritto libri molto interessanti, confermando come la scienza dei segni sia uno strumento privilegiato per leggere la realtà. Da qui titoli come La cura Ludovico su “sofferenze e beatitudini di un corpo sociale”, testo di intrigante analisi “cineletteraria”: su Arancia meccanica, di cui svela pulsioni e meccanismi che vanno ben oltre i casuali protagonisti della vicenda. O, rimanendo in un campo prediletto dalla semiotica – ed è inevitabile pensare a Umberto Eco e alla fenomenologia di Mike Bongiorno – le “affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico” dedicato al camilleriano commissario Montalbano. Per un semiologo come Marrone, cioè per un osservatore dei riti sociali, era inevitabile che arrivasse il momento di affrontare Il discorso di marca, cioè il fenomeno che più di ogni altro caratterizza il mondo contemporaneo.

Come possiamo definire la marca?

È nata come istituzione economica, quando con la rivoluzione industriale le merci diventano anonime. La marca rendeva riconoscibili le merci, circondandole di una “spiritualità” che sostituiva la mancata relazione fra consumatore e negoziante. Faceva da garanzia per la qualità del prodotto, rassicurava il consumatore. In maniera esplicita, con slogan entrati nel linguaggio quotidiano. Chi non ricorda “Galbani vuol dire fiducia”?

Come se si volesse ricreare il rapporto col bottegaio sotto casa.

Esattamente. All’apparenza la marca è una relazione con un oggetto, ma in realtà è una relazione tra persone. È un’istituzione astratta, portatrice di valori umani e sociali che all’inizio possono essere finalizzati al commercio e alla vendita. Ma la vendita è l’atto finale, a cui bisogna arrivare: il consumatore deve scegliere. Per questo viene ricreata la relazione umana, venuta meno con l’industrializzazione e la massificazione dei consumi.

Il cittadino è soprattutto un consumatore?

La cosa interessante è che, nella seconda metà del ‘900, la marca ha travalicato il campo del mercato ed è diventata una istituzione, applicata a qualsiasi campo sociale.

A cominciare dalla politica?

Ormai gli uomini politici non sono portatori di un partito ma di una marca. Ma avviene con qualsiasi fenomeno sociale: per lo spettacolo, la musica, il turismo. La marca è un’istituzione sociale, a tutti gli effetti. Ha preso il posto dei partiti, delle ideologie, delle religioni. È diventata un luogo per la produzione di valori sociali, dove la gente si incontra e costruisce identità, relazioni. Si costituiscono delle micro-socialità proprio a partire dalla marca: è un meccanismo che ritroviamo fra i tifosi, come fra i patiti delle Harley-Davidson.

Ma succede perché la modernità non dà altri valori?

Il problema è che adesso i valori vengono veicolati da questo tipo di meccanismo sociale. Prima, a costruire l’identità c’erano altri mediatori: la famiglia o la patria, o il partito politico.

Le marche come patrie globalizzate?

Possono essere anche molto locali, non è indispensabile che siano globali.

Mi pare di capire che, dal globale al locale, una serie di marche si offre al consumatore. Il quale costruisce la sua identità, con un lavoro di patchworch.

Sì, ma è abbastanza discutibile pensare al discorso di marca come qualcosa che viene imposto e subito.Le marche si costituiscono a partire da desideri e valori che addirittura preesistono a loro: le marche riprendono dalla cultura sociale bisogni e desideri, li fanno propri e li rilanciano. I consumatori possono accettare o meno, ma se non c’è l’incontro col consumatore, la sua risposta, la marca non esiste. Diventa solo un’immagine aziendale.

E la pubblicità?

Non ha più quel ruolo centrale che aveva sino agli anni ’80 del secolo scorso. Gli stili di consumo sono frammentati.

L’offerta è ampia, ogni marca offre un suo mondo. Molto melting pot, un po’ Blade runner.

Il consumatore è diventato più competente, riesce a giocare con un pacchetto di marche. Con cui si identifica, ma senza troppe fedeltà. Cambia marca e modo di proporsi, di essere, rapidamente. Nel corso della stessa giornata.

Quello che viene fuori è un paesaggio molto metropolitano

Sì, dove i tentativi di opporsi alla marca e rinunciarvi, in qualche modo vi tornano dentro. Nel libro cito il caso del consumo equo e solidale: che è diventato una marca a tutti gli effetti. La marca ha una forza tale da inglobare chi gli si oppone. Prima la società si divideva in due grandi categorie, fra chi aveva e chi non aveva i mezzi di produzione. Adesso si divide sui consumi, sulle scelte di consumo: che avvengono a partire da quello che le marche propongono.

In Sicilia, cioè una regione di “consumatori puri”, c’è il trionfo della marca?

Certo. Ci ritroviamo in una situazione analoga a quella del terzo mondo. Con le aziende che sono arrivate in virtù di agevolazioni varie, per produrre a basso costo, ma non producono ricchezza. Adesso fioriscono i call center, sottolavoro sottopagato.

I siciliani come consumatori ideali?

In un certo senso sì, qua il consumatore medio è molto meno critico. Ancora risponde a una logica tipica degli anni ’80, quella della griffe. Soprattutto fra i giovani. C’è l’esibizione esagerata e anche un po’ pacchiana del marchio o, viceversa, una fascia di ragazzi che lo rifiuta in toto. Con una divisione molto netta, che in altri contesti è ormai superata. Il consumatore non ha ancora raggiunto quella consapevolezza che altrove è abituale, ha una certa arretratezza, è meno critico.

Il provincialismo porta ad accettare acriticamente le mode. Ma è un dato che si contrappone al discorso inflazionato sulla nostra identità e le nostre tradizioni, non crede?

Ma qua la tradizione non esiste. È falsata, è un bluff. La tradizione non è certo il carretto siciliano, è quella che troviamo nel Nord-est: cioè in un posto che produce ed esporta. E che al contempo è stato ben attento a preservare le proprie radici.

Visto che parliamo di marche, possiamo dire che in questi anni, nonostante tutto, la Sicilia è di moda?

Sì, è di moda. Una serie di combinazioni casuali si è felicemente imposta, affermandosi nello stesso momento: non c’è un vino che sia più alla moda del nero d’Avola, a esempio. Ci sono le squadre di calcio, affermate a livello nazionale. O comici come Ficarra e Picone, la cui fortuna molto deve all’essere siciliani. Ma la moda è quello che passa di moda, per dirla con un gioco di parole.

È il momento di trasformare un successo di immagine in realtà più consistenti?

È così. Arrivando all’assurdo, io che sono un semiologo, di fare l’elogio della concretezza. Non basta l’immagine, è fondamentale capirlo. Il trend positivo deve essere supportato, con un lavoro per renderlo meno effimero. In una prospettiva che coinvolga sia la politica amministrativa che il mondo imprenditoriale: ci sono tanti fermenti, ma bisogna ancora imparare la logica del mettersi in sinergia, del creare reti per lavorare assieme.

E Palermo?

In gran parte la città resta sconosciuta ai suoi abitanti. Che vivono in compartimenti stagni, ognuno coi propri luoghi e percorsi. Una città formata da tanti luoghi chiusi, vivaci al loro interno ma senza comunicazione fra loro. Bisogna trovare un modo per far comunicare questi luoghi chiusi. È questa la sfida per il futuro di Palermo.

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