Il Manifesto
Quello che nasconde il nome delle merci
di Patrizia Calefato
Il manifesto 22/01/2008
Gershom Scholem, il grande studioso novecentesco di mistica ebraica, ha dedicato una parte importante delle sue ricerche al ruolo del nome di Dio nella cultura cabalistica: un ruolo fondamentale, se si accoglie l’ipotesi mistica che la Torah, il testo sacro della tradizione ebraica, sia in realtà, come scrive Scholem, l’espressione della infinita potenza di Dio che si concentra nel suo nome. Per chi ha a cuore la filosofia del linguaggio intesa come conoscenza e potenza intessuta nelle pieghe della parola, è sempre stata di grande interesse questa prospettiva coltivata in modo profondo dallo studioso tedesco trasferitosi nel 1923 a Gerusalemme. Il potere generativo di linguaggio assegnato al nome divino dal misticismo monoteista può fungere infatti da modello anche per interpretazioni “mondane” e secolarizzate, a condizione, certamente, di sapere riconoscere nel “mondo” qualcosa che stia effettivamente al posto del nome di Dio, che abbia cioè un analogo potere di creazione continua di significati a partire dalla forza icastica di un solo segno. Dovrebbe trattarsi di un segno che, come il nome di Dio nel testo della Torah, si possa rendere, per parafrasare Scholem “filo conduttore del disegno” nell’intricato tessuto della cultura (La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, prima ed. 1980).
Diverse ipotesi, molteplici metafore sono state fatte in contesti spaziali e temporali differenti. Un ulteriore aspetto della ricerca di Scholem ci serve però come passaggio verso la possibilità di immaginare l’esistenza nel mondo contemporaneo di una cifra che dispieghi il suo potere semiotico in un rapporto non solo intrinseco alla testualità, ma in particolare giocato nella connessione tra testo e corpo, inteso quest’ultimo sia come corpo umano in senso stretto che come corpo sociale. Scholem è stato il primo studioso a occuparsi delle diverse versioni manoscritte di un Libro degli abiti risalente ai circoli dei mistici che si formarono prima della Kabbalah del XIII secolo. In questo trattato si espone la tecnica dell’indossare il nome di Dio che stabilisce che i nomi segreti di Dio debbano essere scritti su un pezzo di pergamena da cui viene ritagliata una specie di giacca senza maniche e fabbricato un cappello. Il mistico indossa questi indumenti e digiuna per sette giorni astenendosi anche dal contatto con qualsiasi impurità. Passato questo tempo, egli si deve recare di notte vicino all’acqua e “gridare il nome”. Se nell’aria sopra l’acqua si percepisce una figura verde, questo indica che l’adepto è ancora impuro e deve ripetere nuovamente il rito dei sette giorni, fino a che la figura che si percepirà sopra l’acqua non assuma un colore rosso.
L’idea di indossare un nome proprio dal potere straordinario non può sembrare tanto assurda ai nostri giorni, nell’universo pletorico di nomi che ci avvolgono sugli abiti e sugli accessori sotto forma di marche, firme, griffe, logo, etichette. Segni che si “incidono” a diretto contatto con i nostri corpi, come delle impronte che marcano con la loro immagine anche l’intera realtà e l’idea stessa di corporeità sociale immaginata e vissuta.
Sono forse questi segni ad avere, almeno in un certo senso, sostituito nel mondo contemporaneo il nome divino dei rituali mistici di cui parla Scholem? E’ proprio questa metafora solo apparentemente blasfema che, pur senza esplicito riferimento a Scholem, viene proposta da Gianfranco Marrone nel suo ultimo libro, Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding (Laterza 2007): la marca tende a volere occupare il posto di Dio. Parliamo proprio di “quella” marca, il brand, come si dice in lingua globalizzata: quel segno intriso di un potere speciale che si pone a cavallo tra linguaggio, merci e valori, e che, a parere di Marrone, produce e organizza sensi individuali e significati sociali in nome dei quali costruisce, articola e svolge la propria identità soggettiva.
L’idea di una “brandizzazione” generalizzata si collega oggi a una sorta di transvalutazione che marchi e marche hanno realizzato nel momento in cui ad essi è stata attribuita non più semplicemente la funzione di denominare un prodotto per distinguerlo da altri, ma quella di incarnare un concetto, un valore, un’emozione, una narrazione. E’ divenuto così possibile “brandizzare” non solamente le merci, ma anche i territori, gli spazi e le comunità umane come le nazioni o le città. In questa transvalutazione, il nostro tempo ha però anche consumato sia l’ingenua fiducia miracolistica in quel “battesimo delle merci” che porta a nominare tutto per poi non nominare niente, sia d’altro canto anche l’attacco in chiave “no-logo” al sistema di potere e di appiattimento culturale che i brand globali rappresentano. Che questo oltrepassamento sia stato maturato con consapevolezza non è certo automatico. Prova ne sia, per esempio, la vicenda del “Made in Italy”, il meta-brand che funziona come garanzia di design di alto livello e raffinatezza indiscutibile, come sinonimo di stile nel mondo della moda, sistema da sostenere per il futuro della nostra economia, ma che proprio nell’ambito della produzione di moda manifesta da alcuni anni tutti i suoi limiti. Non semplicemente a causa della consolidata delocalizzazione delle imprese, ma soprattutto perché, come dimostra Roberto Saviano nelle prime 50 pagine di Gomorra, questo brand occulta spesso i circuiti maledetti che le merci di moda compiono prima di giungere, fastose e glamour, nei luoghi della loro rappresentazione onorifica e sui corpi di lusso delle celebrities.
Nello scenario di questa seconda generazione, per così dire, della cultura della marca, essa, secondo Marrone, fa proprio e propone alla cultura sociale un modo di pensare “radicalmente opposto a ogni funzionalismo e materialismo ingenui, a una razionalità economica che pensa e opera nei termini rigidi ed esclusivi del calcolo e del bisogno, del rapporto fra qualità e prezzo, fra necessità e loro soddisfacimenti”. Potremmo dire che la marca incarni allora la possibilità di trasformare il “denaro”, inteso sia come principio generale che come spettro del valore, nelle sue trasfigurazioni poetiche e narrative, andando in questo lavoro di metaforizzazione, ben oltre un’idea “economicista”. A queste trasfigurazioni già il giovane Marx aveva attinto, utilizzandole come una specie di guida teorica e tematica per definire il potere del denaro, dal Faust di Goethe al Timone d’Atene di Shakespeare.
E’ uno scenario complesso però quello su cui si fonda oggi il concetto di valore: uno scenario “mitologico” in senso ampio, “sacro” in senso profondo. Uno scenario alla cui interpretazione può contribuire quella disciplina di crescente rilevanza non solo accademica che si chiama sociosemiotica, di cui Marrone è autorevole esponente, che si occupa dei modi in cui i segni, mettendo in relazione cose e idee, materie e pensieri, divengono elementi intessuti nella realtà sociale di cui costruiscono interi “pezzi”. La marca, vista nella prospettiva proposta da Marrone, non ha allora nulla a che vedere con il prodotto analizzato o creato dai moderni ideologi di quella che lui chiama “una formazione iperspecialistica e settoriale, funzionalista e banalmente praticona”. La marca coinvolge invece in modo ampio fenomeni semiotici come quelli del racconto e della passione, dell’identità, dello stile, del genere, della sensorialità, delle strategie figurative e della cultura visuale. Nome di Dio, ma non Dio nascosto, come sottolinea Marrone, la marca “trascende uomini e cose, ma solo a patto di manifestarsi per mezzo di un certo numero di segni necessari che la rendono riconoscibile, identificabile, replicabile”.
Torna in questo senso di grande attualità la lettura che nei primi anni ’90, in un saggio contenuto in libro curato da chi scrive questo articolo (Moda & mondanità, Palomar 1992), svolse sul tema analizzato da Scholem dell’indossare il nome di Dio uno studioso francese-israeliano di semiotica visiva purtroppo prematuramente scomparso nel 1996, Claude Gandelman. Il mistico riconosce di avere indossato e gridato il nome vero di Dio, scriveva Gandelman, solo quando l’acqua gliene restituisce la conferma funzionando come uno specchio. “Dio viene visto per speculum e certamente anche in aenigmate”, aggiungeva lo studioso riprendendo la suggestiva immagine della visione indiretta di Dio contenuta nella Lettera ai Corinzi di San Paolo e proponendone una qualche connessione con l’antico rituale ebraico trattato da Scholem. Il nome, dunque, viene reso testo attraverso il potere di riflessione che l’acqua possiede: il visibile si rende leggibile, scriveva ancora Gandelman spostandosi dalla mistica antica all’analisi dei filatteri ebraici che recano su di sé il nome di Dio, fino all’uso dell’iscrizione di lettere sugli abiti fatto proprio dalle avanguardie di primo Novecento (in particolare Sonia Delaunay), per giungere alle T-shirt, alle firme e alle marche della moda contemporanea. Ricoprirsi di marche, cioè di testi leggibili, permette allora di assomigliare il più possibile al testo e rende così generalizzato il potere di impronta non solo figurativa, ma in certi casi proprio letterale, della marca.
Tra gli innumerevoli casi studiati da Marrone, ne sono prova quegli esempi di comunicazione di marchi aziendali in cui si confonde volutamente la parola con l’oggetto e in cui è il corpo a venire trasformato in testo scritto o comunque segnato, marcato, se non addirittura marchiato: “Quando dormo indosso solo Flou” recita una pubblicità di letti. “Skin” (pelle) è il nome di un certo tipo di Swatch. “You are everywhere” è il motto di una pubblicità Ericsson in cui compare il volto di un uomo su cui in trasparenza si imprime una carta geografica. Un paesaggio di montagna copre per intero le spalle della modella in una campagna della Regione Trentino, come se fosse un disegno sulla pelle.
Assume una rilevanza centrale l’idea di impronta semiotica, intesa, come ha scritto Jacques Fontanille in un libro intitolato Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta (Meltemi, 2004), come “la figura, stabile nello spazio quanto nel tempo, che permette di stabilire il legame tra due facce, due stati o due ruoli della stessa ‘entità’”. La marca diviene in senso pieno “discorso di marca”, proprio come lo chiama Marrone; cita, condensa, ha una funzione apotropaica, richiama e reclama (come una réclame), e soprattutto pone come protagonista il corpo, inteso come corpo testuale.
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